TTT – UNA CULTURA DAL BASSO CHE GRIDA

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In seguito al primo convegno di TTT (Togliere-Togliere-Togliere) di sabato 6 aprile presso l’accogliente “Sporting Hotel San Felice”, Illasi, nasce questo articolo. Vuol essere in prima battuta una sintesi puntuale dei concetti comuni emersi durante l’incontro e, successivamente, un’analisi personale a più ampio respiro, ovvero un declinare alla nostra quotidianità le numerose ed interessanti riflessioni fatte dai partecipanti.

  1. “Giù le mani dalle vie storiche”. Le vie classiche non dovrebbero essere riattrezzate sportivamente: in primis perchè nella maggior parte dei casi non è possibile chiedere il “permesso” agli apritori, in secundis proprio perchè classiche devono mantenere la propria peculiarità di ingaggio, avventura, rischio e sintonia con la lettura della linea. Si chiede rispetto per la storia delle pareti e un invito ad informarsi con tutti i mezzi possibili (ad oggi veramente molti: web, biblioteche, associazioni come CAI o SAT, gente del posto, …) sullo storico del luogo ed avere l’umiltà di fare passi indietro qualora si incappasse in terreno non vergine.

Provocatoriamente c’è l’intenzione (non tutti convinti) di schiodare un “ecomostro dell’alpinismo” col fine di, come si suol dire, colpirne uno per educarli tutti.

  1. Una domanda che sarebbe necessario sorga nella mente dell’apritore di una nuova via dovrebbe essere: “Ha veramente senso spittare qui con tutti gli itinerari che già ci sono?” Siamo circondati da vie che spesso non sono ripetute o cadono nel dimenticatoio, quindi vale la pena aggiungere metallo in ambiente con tutto quello che già c’è? Spesso solo per il narcisismo di lasciare la propria “firma” sulla parete.
  2. Dove chiodare. “Non ciodar sul rumego” questo è il leitmotiv ripetuto durante la serata giustificato dal fatto che questo tipo di vie attraggono arrampicatori dal grado facile e dallo spit vicino che però non sono forse né esperti, né di lunga tradizione alpinistica, motivo che li porta a lesionarsi più facilmente pensando di poter affrontare una via a più tiri semplice senza le minime conoscenze di multi-pitch.

Inoltre su vie di gradi bassi è solitamente più facile proteggersi “tradizionalmente” con cordini o protezioni veloci data la conformazione della roccia, fatto che rende ancora più inutile l’utilizzo di spit in questo territorio.

  1. Si invita ad una maggior attenzione e rispetto della natura, dell’ambiente e delle zone protette. Se in determinati periodi dell’anno non è possibile scalare in certi settori o falesie intere prendiamone atto e non violiamo questi divieti perché le conseguenze sulla fauna e sulla flora possono essere gravi. Si pensi alla recente denuncia per disastro ambientale rivolta a quegli amanti della natura (sic!) che hanno spittato una grotta in zona vietatissima a Lumignano sradicando una quarantina di piante di una specie protetta, tagliando ai piedi un’edera secolare e causando la morte di moltissimi membri di una delle più grandi colonie di pipistrelli d’Europa svegliandoli dal letargo, la cui importanza per l’equilibrio dell’ecosistema è fondamentale.
  2. I più esperti e conoscitori della materia sono a completa disposizione per raccontare a chi si approccia all’arrampicata la storia e la tradizione delle pareti del nostro territorio, in modo da non farli grossolanamente incappare in errori anacronistici o con scelte non in sintonia con la storia arrampicatoria del luogo.
  3. Chiediamo consapevolezza e uno sguardo lungimirante ai nuovi apritori di vie e falesie, si ha da tenere ben presente che quello che facciamo ha delle reazioni nel futuro più o meno prossimo. Al chiodare una nuova parete non si può prescindere dal tenere in conto: l’impatto ambientale, che lì arriveranno persone e anch’esse con i loro comportamenti (per quanto corretti e armonici) modificheranno il contesto, che si porterà traffico nella zona, macchine, necessità di parcheggio (magari in precedenza destinato alle persone che abitano i paesini limitrofi), che verrà stravolta la tranquillità del loco, … quindi sguardo globale e proiettato al futuro, non solo alla qualità e peculiarità della roccia.
  4. Per i nuovi apritori: attenzione al materiale utilizzato. C’è un motivo se si utilizzano certe leghe o materiali piuttosto che altri. Per esempio i chiodi di acciaio inox non si adattano alle fessure, sono duri e lucidi; poi ci chiediamo come mai al primo volarci sopra misteriosamente saltano via.
  5. Si lamenta un’assenza di divulgazione di cultura montana da parte di associazioni riconosciute a livello nazionale, il primo assente in merito è il CAI. D’altra parte è difficile aspettarsi cultura da un’associazione che per segnare i sentieri (per lo meno nel mio territorio, la Valpolicella) utilizza scotch di plastica rossa e bianca.

Ampliando il raggio della riflessione, partendo cioè dall’argomento alpinismo e applicando gli spunti emersi ad altri ambiti di vita emerge che:

  • aumenta la sicurezza delle vie (più spit, meno trad) e cresce anche il numero di incidenti. Paradosso? “Assolutissimamente no”. Guardando oltre il mero fatto pratico che vede l’arrampicata cresciuta esponenzialmente come numero di appassionati nell’ultima decada, c’è un fatto che emerge legato all’adattabilità della natura umana: la sicurezza fallace. La sicurezza che ci porta all’errore, la sicurezza che non lascia spazio alla metis, l’intelligenza pratica.

Ci sono fior fiore di pedagoghi che affermano che il bambino ha bisogno di incappare nello sbaglio (sbucciarsi le ginocchia correndo) per crescere e poter arrivare a capire con la propria testa, la propria intelligenza, dove ha sbagliato per non commettere più l’errore di prima. Piccoli errori che aiutano a crescere, che ci corazzano per affrontare la vita e le sue sfide future. Piccoli errori che è sempre più difficile riuscire a commettere a causa di un iper-protettivismo (telecamere e camionette dell’esercito), un’iper-sicurezza che porta ad una insicurezza nella persona e ad una delega di responsabilità (se lo faccio rischio di farmi male, perchè è quello che mi hanno sempre detto -es. non correre che ti fai male- quindi sto ferma e piuttosto faccio fare ad altri. Ma ho dei problemi fisici/mentali che non mi permettono di correre senza cadere? Di non ragionare per conto mio?).

L’insicurezza, inoltre, porta alla sensazione di paura e la paura ci fa agire violentemente e con arroganza (vedi reazioni contro migranti e rom, molti ne hanno paura perché diversi e ignoti e “ci rubano oltre che nelle case anche il lavoro”). Qualsiasi individuo se ha avuto l’opportunità di crescere ed imparare dagli errori capirà che il diverso, il nuovo, il limite alla propria libertà, non è necessariamente sbagliato o minaccioso, mentre chi è sempre stato iper protetto risponderà aggressivamente, magari arrivando alle mani anche per futili motivi (vedi ragazzi che picchiano docenti di fronte ad un voto negativo o ad un rimprovero o, ancor peggio, quando sono i genitori stessi che arrivano alle mani. Altro esempio è quello di certe tifoserie di calcio che non sono guidate dalla passione per lo sport, per la propria squadra, ma dall’odio verso l’avversario, il diverso che, in quanto tale è nuovo, e destabilizza, proprio per l’insicurezza insita in quel tipo di persone). Un individuo sicuro e consapevole delle proprie capacità, limiti, diritti e doveri non si spaventa davanti al diverso, ma lo accoglie come valore aggiunto.

La maggior sicurezza millantata da certi governi con ingenti investimenti nelle forze dell’ordine, leva obbligatoria (?), nell’esercito per le strade (mentre abbiamo scuole che crollano e ospedali senza personale) causano nella civis proprio lo stesso meccanismo: una de-responsabilizzazione del singolo, una falsa idea di sicurezza e un conseguente sedimentarsi di insicurezza nell’humus della persona che genera germogli d’odio.

E’ un ingranaggio corrotto che ci porta a credere di sentire la necessità di avere qualcuno che decida per noi, ci stanno togliendo la possibilità di crescere e di diventare consapevoli delle nostre tante capacità, proprie dell’essere umano. Prime tra tutte la cultura. La cultura è l’unica arma che abbiamo per contrastare l’ignoranza, la superficialità e la paura che diventa violenza. Con la cultura si impara il rispetto a trecentosessanta gradi.

  • Siamo nell’era del capitalismo, dove tutto ha un valore economico e vige inviolata l’equazione più caro=più valore, riusciamo a fare il paragone della portata di una cosa solo ragionando in termini economici, numerici. Siamo nel momento storico delle merci, degli oggetti e dell’accaparrarseli; della necessità di comprare e consumare, dell’offerta di beni che supera la domanda, ma questo non conta, l’importante è produrre. Certo dobbiamo anche convincere le persone a consumare e allora via di black friday dove, indiavolati, facciamo a pugni con il nostro vicino per arraffare l’elettrodomestico che nemmeno ci serve, però costa poco, e un domani chissà, potrei anche usarlo. Viviamo in un’epoca in cui sottraiamo spazio alla natura per costruire storage, veri e propri magazzini privati, dove imballare oggetti perchè le case ne sono già sature. Dove i supermercati gettano cibo ancora commestibile in cassonetti ben chiusi con lucchetto e il tasso di mortalità per denutrizione non cala. Il tutto in nome del denaro.

Denaro, simbolo della società borghese, del suo potere e dei suoi privilegi, forbice tra individui. Ennesima invenzione umana a cui abbiamo attribuito erroneamente carattere immanente.

E la montagna? Siamo arrivati a mercificare anche lei, la vendiamo all’amministrazione che la compra in nome di una falsa sicurezza (di cui prima) che è un velo di Maya per nascondere mere volontà di attrazione turistica. Turismo che comporta impatto ambientale non trascurabile, come più sopra scrivevo. Non puntare ad una mercificazione del territorio ma ad una sua valorizzazione genuina è responsabilità sia delle amministrazioni, sia delle realtà lavorative implicate (guide ambientali, guide alpine, etc…): queste non dovrebbero vendersi infangando così il territorio, o, come troppo spesso succede, e restare immobili a deliberare sul lavoro fatto da persone senza la “patacca”, come se questa dia diritto di sentenza; potrebbero piuttosto suggerire a chi gestisce politicamente il territorio idee alternative, anche questo probabilmente fa parte del loro lavoro.

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Luglio 2018 – il Bivacco Zeni in Vallaccia trasformato in casa d’aste.

Non si può più tollerare una violazione indiscriminata della montagna per tornaconti economici. Non possiamo più considerare l’alpe come bene economico alla stregua di un luna-park.

  • Analizzando in modo più organico il concetto di semplificazione si nota che tanto in montagna, quanto nella vita quotidiana, stiamo andando da un lato verso la semplificazione dell’agire (e quindi del conseguire) e dall’altro siamo sommersi da una burocratizzazione che paralizza, altro ossimoro che ci siamo imposti e che si risolverà solo eliminando in toto la burocrazia. Ma questo è un altro discorso.

Focalizziamoci sulle conseguenze della semplificazione. Citando il manifesto TTT: “Diciamo basta a chi pretende di azzerare ogni difficoltà obbligatoria, ogni conseguenza delle tecniche e della faticosa preparazione necessarie per arrampicare e proteggersi, alimentando schiere di neofiti teleguidati da false sicurezze e super relazioni”. Questo lo affermano gli amici vicentini non perchè sono più fighi, per dirlo con un francesismo, ma perché sostengono, e io come loro, che è importante crescere con lentezza, tanto in montagna quanto nella vita. Conquistandosi metro dopo metro con consapevolezza. La logica del “tutto e subito” è figlia di un futurismo poco sano che acceca la sensibilità emotiva e la lettura della via, della roccia, si assopisce il senso di ricerca e ci si focalizza solo nel passaggio da spit a spit. Stiamo assistendo ad un arrendersi generalizzato in questa nostra società globalizzata, si sottrae spazio alle capacità individuali, proprie della nostra specie, e ci affidiamo alla sicurezza dello spit che ci dice esattamente dove andare. Questo nuovo sistema “iper-sportivo” rispecchia perfettamente il tessuto sociale: non pensare, ti dico io dove andare, affidati a me spegnendo il cervello, io sono il vostro pastore quindi voi siete le mie pecore? Capre? Beh, un’immagine non proprio lusinghiera, con tutto il rispetto per questi animali. Siamo stati e siamo quotidianamente lobotomizzati da un processo che spegne le menti critiche e accende quelle insipide, ci svuota di sapere e ci indottrina di falsi miti. E se è vero che: “Il peggiore dei sacrilegi è il ristagno del pensiero”, il ruolo di chi dalla caverna ci è uscito è quello di scrollarsi e scrollare di dosso la gabbia che stanno cucendo sulla nostra pelle e riattivare connessioni collettive e sociali.

  • Infine, le ultime parole volevo spenderle sulla semantica di un termine che viene spesso, troppo spesso, maltrattato; sto parlando di Anarchia. Mi auguro che, dopo avere letto questa breve delucidazione, ogni lettore non incapperà mai più nell’errore di usare il termine impropriamente. La spiccia trattazione qui proposta non ha assolutamente il pretesto di essere né esaustiva né autorevole, il concetto è molto complesso e ampio e io solo un’affezionata autodidatta.

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Tutti la spiegano mediante sinonimi come disordine, caos, violenza, arbitrio, etc… I quali oltre che insulto alla sua logica ed alla sua verità, sono la caratterizzazione di quanto chi così la definisce agli occhi dell’anarchico. A(n) = rifiuto di, privazione. Archia = principio del comando; quindi una negazione del concetto di arché inteso come “potere di comando” e non del termine kratos, potere di governo, come molti la definiscono scivolando nell’errore.

 

Soltanto analizzando l’etimologia greca del termine emerge evidente quanto essa sia una parola troppo piena di significato per l’uso che ne viene fatto abitualmente.

Chi crede nell’anarchia, crede nell’originalità della specie umana, e questa originalità deriva dalla sua stessa natura, in quanto dispone di una intelligenza, per certi aspetti, superiore rispetto all’animale. E questa intelligenza permette coscienza, conoscenza, cultura e scienza. Conseguentemente l’uomo è stato capace di dominare la natura a suo vantaggio (individuale e collettivo) e modificarla. A tal punto però da violare leggi della natura a proprio scapito, chiudendosi in società gerarchizzate, che alienano la libertà di consenso degli individui, creando tra loro ineguaglianze fine a se stesse, allontanando l’uomo dal suo naturale divenire, frenandone l’evoluzione a temporaneo vantaggio di pochi, sprecando il prezioso potenziale energetico della società in vane soddisfazioni egoistiche per una minoranza usurpatrice.

Dunque da qui si capisce il rifiuto dell’ordine artificiale (alias disordine) basato sul principio di autorità, la negazione del principio di violenza indiscriminata e verticistica, che viene imposto nella comunità umana nel suo divenire. Negazione quindi del principio di autorità e della coercizione da essa esercitata (a questo punto si potrebbe anche riflettere su cosa sia violenza, se non quella mascherata, indorata, sommaria, quotidiana venduta dai governi di qualsiasi colore).

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Il fine ultimo dell’anarchismo non è quello, udite udite, di metter bombe davanti alle porte di partiti politici o di gettarsi distrattamente da finestre, ma è quello di instaurare una società umana armoniosa che possa conciliare la libertà degli individui e le esigenze della vita sociale; un progetto sociale e politico per un mondo razionale, egualitario e libertario. Un equilibrio, un ordine perfetto. Basato su democrazia diretta, decentrata e assembleare in cui, parafrasando Bookchin con parole di Martino Seniga: “La partecipazione diretta al governo locale rappresenta la base per lo sviluppo di una società caratterizzata da un’organizzazione politica più libera, efficiente e complessa”. Utopia? Nossignore, vedi il progetto comunalista e confederalista democratico che da anni vige nel Rojava, e a che prezzo e con che coraggio.

Quindi chi definisce anarchia disordine e libero arbitrio, commette un grave errore, passa per qualunquista e profano, nonché cieco al processo di errata attribuzione semantica subito dalla parola stessa. Processo tutt’altro che ingenuo e casuale.

E’ stato spiacevole durante l’incontro sentire la frase: ”L’anarchia porta a questo” detta da un signore partecipante in riferimento alla via a Ceriano, Val d’Adige, che è stata attrezzata con prese artificiali per ridurne il grado. Questo non è un modo di agire libertario, perché non è né rispettoso, né armonioso, né deciso dalla comunità di climbers; è dettato piuttosto da, probabilmente, una non conoscenza della storia e delle caratteristiche del territorio o da una scarsa capacità tecnica, quindi ancora una volta alla mancanza di cultura a trecentosessanta gradi.

“L’alpinista deve fare la sua parte sia in montagna che in città”.
AUTRICE: Sofia Lonardoni

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